Sviluppo urbano sugli oceani: modificata un’area di circa 2 milioni di chilometri quadrati

Sviluppo urbano sugli oceani: modificata un’area di circa 2 milioni di chilometri quadrati

Le strutture marine attualmente costruite sui mari di tutto il mondo hanno già modificato, con conseguenze negative sull’equilibrio degli ecosistemi marini e sulla biodiversità, un’area di oltre 2 milioni di chilometri quadrati

E’ questa l’estensione globale delle costruzioni artificiali dell’uomo destinata a crescere ulteriormente del 50-70% entro il 2028 e a diventare sempre più impattante, anche a causa delle conseguenze del cambiamento climatico causato dall’uomo.

Si tratta di costruzioni e infrastrutture concentrate soprattutto in prossimità delle coste che inevitabilmente hanno modificato i delicati habitat naturali. Ma per fortuna stanno emergendo alcune alternative più sostenibili e rispettose dell’ambiente e degli oceani.

Un ponte a Mumbai

Gli studi internazionali

A quantificare l’impatto di queste infrastrutture sugli oceani sono due studi internazionali, pubblicati su Nature Sustainability ( “Current and projected global extent of marine built structures”) sulla Annual Review of Marine Science, dal titolo “Emerging Solutions to Return Nature to the Urban Ocean”.

L’aumento costante degli ambienti marini che vengono permanentemente modificati dalla presenza di costruzioni, con effetti in molti casi irreversibili, è un grave problema fino ad oggi poco considerato”, ci spiega Laura Airoldi, professoressa dell’Università di Bologna e dell’Università di Padova che ha partecipato ad entrambi gli studi.


Stiamo parlando di barriere artificiali, porti commerciali e turistici, tunnel e ponti, piattaforme petrolifere, parchi eolici, infrastrutture per l’acquacoltura: si tratta di un’area che gli studiosi hanno stimato oggi in almeno 32.000 chilometri quadrati di infrastrutture. Queste modificano oltre 2 milioni di chilometri quadrati perché bisogna considerare il totale dell’area di oceano che subisce l’impatto permanente della presenza di queste infrastrutture, con cambiamenti nelle caratteristiche del fondale, nei movimenti delle acque, nella presenza di varie forme di inquinamento, e nella distribuzione delle specie marine.

“Ogni struttura costruita in mare modifica gli habitat naturali che la circondano e questo può portare a conseguenze che si estendono su ampia scala”, spiega ancora la professoressa Laura Airoldi. “Per ridurre questi impatti negativi stanno emergendo diverse soluzioni basate sulla natura, che utilizzano in maniera sostenibile gli ecosistemi marini naturali o semi-naturali per affrontare le grandi sfide sociali delle città costiere, quali i rischi legati ai cambiamenti climatici, l’inquinamento delle acque, e la sicurezza alimentare, e la cui attuazione apporta contemporaneamente benefici sociali, economici e ambientali”.

Le soluzioni possibili per ridurre l’impatto sull’ambiente

E’ possibile, ad esempio, sviluppare anche in mare criteri di edilizia “verde” che garantiscano la sostenibilità, oppure azioni mirate di ripristino di habitat marini in grado di ricostituire le difese naturali dei litorali con dei costi molto inferiori rispetto a quelli impiegati per la costruzione delle cosiddette “difese dure”, come i muri di cemento. E lo sviluppo di nuove biotecnologie per l’ambiente marino può portare a soluzioni naturali per ripulire e rivitalizzare le aree contaminate, o per l’acquacoltura. 
Riuscire a bilanciare le diverse necessità sociali ed economiche delle città costiere, garantendo al tempo stesso la difesa degli ambienti marini è una delle sfide più grandi del nostro tempo”, sottolinea ancora la Professoressa Airoldi. “Gli strumenti che abbiamo oggi possono “rinaturalizzare” alcune delle aree marine più degradate dallo sviluppo urbano costiero, affrontando allo stesso tempo alcune delle criticità delle società costiere, quali i rischi legati ai cambiamenti climatici, la produzione di prodotti ittici, il mantenimento di un ambiente acquatico sano e pulito e le crescenti attività ricreative e turistiche”.


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